Bologna, lunedì 25 novembre 2024 – Oggi non vi vogliamo soltanto raccontare una storia, ma abbiamo l’obbligo morale di raccontarvi una storia di donne e di riscatto.
In questa giornata dedicata alla lotta alla violenza contro le donne, troppe volte leggiamo storie di donne sottomesse, che vengono umiliate, maltrattate, violentate sia fisicamente che psicologicamente. Perché sì, non tutti noi, fortunatamente, abbiamo subito violenza fisica, ma chi di noi può dire di non aver mai subito la violenza psicologica? Nell’era del narcisismo dilagante e dell’egocentrismo imbarazzante, sembra impossibile non aver incontrato questo genere di sopruso.
Ebbene, questa non sarà la storia di una sottomissione, ma di una ribellione. Oltre le lacrime, oltre le grida di sofferenza, oltre i singhiozzi silenti rotti dal dolore, una donna risorge. Improvvisamente alza lo sguardo, laddove non è permesso di alzare la testa, lei mette a fuoco il cielo oltre l’uomo che la sovrasta.
Siamo nella parte settentrionale dell’Afghanistan e, purtroppo, non troppo indietro nel tempo, solo qualche decennio. Come ogni storia di rivalsa, anche questa inizia con una violenza atroce: una bambina di sette anni viene stuprata dal nonno di una sua amichetta.
La bambina si chiamava Mina. Il padre, quando lo scopre si infuria con la figlia e con la moglie che ha osato prendere le difese della piccola. “Aveva gettato la vergogna sulla famiglia”. Come sempre, le donne risultano essere le uniche custodi delle colpe degli uomini.
Seguirono attimi concitati di liti, urla, strattoni, violenza, poi tutto improvvisamente finì. Il padre era stato incidentalmente accoltellato proprio da Mina mentre cercava di frapporsi tra lui e la madre.
In quel silenzio denso di terrore, non ci fu altro da fare che fuggire. Madre e figlia montarono in sella, presero tutti i cavalli di famiglia e fuggirono nella notte verso le montagne, ancora più a nord, ancora più lontane, ancora più buio.
Il sentiero che percorsero non era nuovo: seguirono le tracce di tante altre donne che, prima di loro decisero di fuggire dalla violenza degli uomini, padri, mariti, fratelli, per rifugiarsi in caverne su delle alte montagne. Non erano le prime a fuggire e, purtroppo, non sono state le ultime, ne erano consapevoli ma erano le uniche ad avere con loro un bene inestimabile, capace di dargli un vantaggio mai avuto prima: avevano i cavalli. E non erano dei semplici cavalli, da soma o da lavoro come potremmo immaginarci, no, erano cavalli da guerra e, per la precisione, erano dei Caspian.
I Caspian sono una delle razze più antiche del Pianeta, e il loro contributo è stato essenziale in questa storia che è anch’essa una delle più antiche del mondo: donne che fuggono da uomini violenti. E così, in questa nuova vita, Mina e la sua mamma, iniziarono ad aiutare tante altre donne sopravvissute alla violenza domestica, facendole uscire di nascosto dall’Iran o da altre prigionie per portarle sulle loro montagne in Afghanistan, in sella ai cavalli del Caspio.
La vita che conducevano era molto semplice, impostata esclusivamente sull’allevamento dei cavalli e sulla lavorazione delle armi da guerra. Perché sì, quando una donna alza lo sguardo non lo fa mai senza aver prima imparato una lezione. E la lezione che Mina e sua mamma impararono in quell’oscura notte disperata fu che esisteva la parola: no, non è giusto. Nessun altro uomo avrebbe mai potuto ridurle al silenzio e costringerle ad accettare un sopruso, un’ingiustizia.
Tra quelle caverne fatte di gelo, neve, sabbia e sole accecante, Mina cresceva insieme alla sua nuova famiglia che era ormai diventata più una comunità visto che superava i cinquanta membri. Tutte le donne erano delle amazzoni formidabili, oltre che delle guerriere.
Ma quale era il loro segreto? Come facevano ad essere delle combattenti così abili e temerarie da scontrarsi con i talebani, gli eserciti invasori russi, i signori della guerra e i cartelli dell’oppio?
Tutti noi conosciamo già questa risposta: erano i cavalli ed il rapporto di assoluta sintonia che riuscivano ad instaurare con loro, che non aveva eguali.
Queste donne e i loro cavalli Caspian divennero celebri come un vero e proprio esercito di guerriere amazzoni in Afghanistan, la loro fama si diffuse così tanto che un giorno dell’anno 2000, sul cellulare Nokia di Mina arrivò questo messaggio: “Berretti Verdi e forze speciali in arrivo. Hanno bisogno di cavalli e formazione”.
Mina si rivolse alle sue compagne e, semplicemente, disse: “Stiamo per fare la storia. Dimostreremo al mondo di cosa siamo capaci”. E così fu, come si può leggere nelle pagine del testo: Book of Queens: The True Story of the Middle Eastern Horsewomen Who Fought the War on Terror, di Pardis Mahdavi, una discendente di queste donne guerriere.
Nel dolore e nella forza di rivalsa che scorrono tra le righe di questa storia, dovremmo cercare di afferrare un insegnamento che possa essere prezioso per gli uomini del futuro: spesso il dono è nascosto dietro la ferita. In questa società, dove veniamo costantemente educati a nascondere e vergognarsi del fallimento che è quasi inammissibile e spesso celato dietro alla maschera della perfezione e del protagonismo, risulta difficile ammettere l’errore, anzi abbracciarlo per accettarlo come opportunità di miglioramento e sinonimo di umanità e parità con l’altro. Nessuno utilizza nessuno per cercare di essere qualcuno che non sbaglia mai.
Ancora una volta i cavalli ci hanno dimostrato come un trauma intergenerazionale possa diventare la storia di una forza interiore tramandata di generazione in generazione: perché nessuna donna possa mai credere di non avere abbastanza forza per alzare lo sguardo verso il cielo, anche nella più tenebrosa e oscura delle notti.